Appunti per un discorso su Kindara di Antonio Giacometti

Appunti per un discorso su Kindara di Antonio Giacometti

Sono felice, dopo molte collaborazioni e qualche anno di pausa, di ricominciare a scrivere per Antonio proprio in questa sua svolta brasiliana, un’idea ricca, originale, efficacemente in controtendenza e stimolante sia da un punto di vista estetico che musicologico. Non è certo una novità che un occidentale prenda spunto da culture esotiche o diverse, né è una novità per Antonio. Tuttavia mi sembra di intuire cosa questa scelta porti con sé. Porta con sé, credo, numerosi rifiuti, primo fra tutti un certo modo di vivere ascoltare e scrivere musica contemporanea. Antonio prende le distanza da una musica contemporanea che ancora oggi si traveste di “sapienza” ma che in realtà usa una serie di intellettualismi e vecchissimi stratagemmi per offrire una visione del mondo quanto meno limitata e desueta e un risultato squisitamente musicale che nel migliore degli esiti chiamerei “decorativo”. A volte può essere semplicemente un disinteresse, un percepire la musica come fine a se stessa, cose che io personalmente non amo e credo nemmeno Antonio.  E questo può avvenire anche in pezzi ben scritti, pezzi che “funzionano”, verbo molto usato nell’arte e nella musica, usato direi a sproposito. La musica e l’arte in genere non devono funzionare, non sono un congegno e non devono produrre nulla, non sono utili nel senso comune della parola. In altri casi ho riscontrato al contrario un franco disinteresse per l’esito finale, del tutto antimusicale e retrogrado, a vantaggio di qualche significato recondito difficilmente supportato da teorie estetiche salde. Io credo che la musica debba portare dentro di sé numerosissimi sensi, suggestioni, spunti di riflessione e ovviamente un piacere insostituibile che ne provoca il desiderio della ripetizione. Antonio sceglie stavolta una tradizione musicale diversa da quella indiana, da quella balinese e da quella africana, da lui per altro usate in modo originalissimo con capolavori come I Paesaggi sincretici. Là Antonio si dichiarava con autenticità e profondità un grande sognatore: cos’erano infatti i punti di contatto tra tutti gli stili che usava, quelle “terre di nessuno” come le chiamava lui, le zone musicali dei suoi pezzi in cui da un linguaggio, da una cultura, da un’intera tradizione si scivolava gradatamente nell’altra, se non nuovi mondi di pace sognati? Probabilmente deluso dal mondo attuale, forse non solo da quello occidentale, passato un decennio, Antonio cerca una nuova matrice, un nuovo punto di partenza in una tradizione musicale che ha una ormai grandissima storia nella cosiddetta musica leggera, più precisamente nella musica popolare brasiliana, che ha avuto molti legami col jazz e col rock, meno con forme di musica colta, moltissimi legami con la poesia e con una cerchia di intellettuali brasiliani che hanno in gran parte avuto un percorso molto diverso da quello della nostra élite, rimasta volutamente distante fino a poco tempo fa dalla cosiddetta cultura pop. Con questo ovviamente non si negano capolavori, anche recenti, nelle arti occidentali!
Antonio si volge al Brasile addirittura con delle canzoni, colte canzoni, ma canzoni. Si rivolge inoltre con un progetto di opera, ora proposto nella forma del monodramma, che richiede una trama di tipo tradizionale, che mette in discussione un teatro cosiddetto (ancora oggi) “sperimentale”, che troppo spesso non è che un revival delle innovazioni e degli esperimenti degli anni Sessanta e Settanta. Credo che tutto ciò sia molto significativo e che vada di pari passo con l’idea onnipresente in Antonio di un impegno sociale forse prima che poetico e musicale, un impegno che non prescinda mai da un’analisi anche crudele, dalla volontà di capire, e dal coraggio di ammettere le sconfitte. La svolta brasiliana è una nuova base per ripartire e forse, perfino, ricominciare a sognare, ma in un modo diverso. Antonio non fugge, non è alla ricerca disperata di una purezza introvabile, si tratta di sogni realizzabili, che tutti possiamo sognare, basta considerarsi uomini, capaci di slegarsi dal conformismo e legarsi con gli altri non solo attraverso una comunicazione quotidiana e di utilità pratica, ma anche trasmettendo emozioni e visioni del mondo.

Per quanto riguarda il mio contributo a questo monodramma, devo dire innanzitutto che il principale problema era per me rappresentare in poche parole, poche arie, due paginette dialoganti, tutta la trama, evitando, per quanto possibile, sia sottintesi incomprensibili sia parti troppo didascaliche. Non è detto che la versione italiana sarà quella definitiva in una ipotetica esecuzione musicale dell’opera. Tuttavia, nonostante fossi sicuro della traduzione in portoghese per queste prime esecuzioni, ho utilizzato in italiano rimandi sonori e ritmici alternando prosa e verso e giocando con immagini poetiche soprattutto nella seconda metà del monodramma, quando, dopo avere avuto la tragica notizia della morte del padre, cambia radicalmente lo stato d’animo di Kindara: ho reso questo cambiamento anche con la descrizione del paesaggio che diventa minaccioso e mostruoso. La percezione del paesaggio è fondamentale. Fin dall’inizio Kindara passeggia in questa paradisiaca spiaggia davanti al mare che si trova sotto la collina su cui sorge la favela; mano a mano che procediamo nel dramma, questa spiaggia diventa una sorta di lembo di terra infuocato dal sole ed angusto, chiuso tra il mare e il monte, luogo presago del suicidio poiché intriso di immagini di morte, morte che rappresenta il crollo della speranza. Tuttavia l’orgoglio e la forza della protagonista non scemano, il dolore anzi li rinvigorisce. Le immagini poetiche forti e più astratte sono state poste in alcuni punti strutturalmente strategici, in un contesto linguisticamente semplice. Ho individuato il punto nevralgico della trama proprio nel momento in cui Kindara scopre la morte del padre Durvalino; ciò avviene in un momento di relativa stabilità nella sua vita, insopportabile ma stabile, grazie alle promesse dell’amato Ignacio, e soprattutto in virtù delle certezze etiche trasmessale proprio dal padre. Il monodramma condensa dunque forti sbalzi emotivi, succedendosi in pochi minuti almeno tre grandi trasformazioni del personaggio: un inizio speranzoso e lieto, quasi da romanzo rosa; una parte centrale da incubo, inaspettata; ed una parte finale in cui dalla disperazione ci si rialza con fermezza e nuove prospettive. Ho voluto citare il Wozzeck, in questo sangue che lava le mani, ma con una funzionalità opposta: il sangue di Kindara infatti si mescola con la potenza del mare che purifica.

Vai alla pagina dedicata a Kindara, leggi e ascolta :)

 

 

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